Gender: Prospettive familiari, politico-sociali e socio-culturali nella rivoluzione di genere.
di Andrea Moi e Giulia Zucca
Uomo-donna, Uomo-uomo, Donna-donna, Yin-Yang, 0-1, tutti concetti che parrebbero ricondurre al dualismo, descritto da Thomas Hyde come sintesi di due principi tra loro inconciliabili (1), religioso.
Il dualismo è un’argomentazione complessa ma alquanto sterile quando viene utilizzata per descrivere i generi sessuali.
I dualismi della nostra storia sono ampiamente superati, per togliere ogni dubbio vorrei citarne alcuni: mamma o papà, mente-corpo, onda-particella, la meccanica quantistica e la relatività generale, Bruce Banner e l’incredibile Hulk, carne o pesce, realtà corporea o mondo delle idee, verità o matrix, mondo materiale o mondo spirituale, ecc. Siamo certi che alcune persone chiedano ancora ai propri figli o alle proprie figlie se preferiscono il papà o la mamma così come altre credono che sia meglio essere Hulk perché lui è più forte. Crediamo che sia maggiormente utile confrontarsi con chi sta superando o ha già superato il muro del dualismo a favore di quello che Keeney definisce un modello di pensiero basato su e/e, piuttosto che uno basato su o/o (2).
“Donne non si nasce, lo si diventa”, ha detto Simone de Beauvoir (3) e il dibattito sulle differenze tra “persona”, “genere” e “sesso” divampa nei social sotto le forme di confronti sui diritti, sul linguaggio, sul lavoro, sull’educazione e tanti altri definendolo innegabilmente come uno dei topic di questa epoca.
Come società sembra che vogliamo trovare una soluzione a tutti i costi. Definire questa cosa del sesso e del genere e non pensarci più! Perché a noi non piacciono le cose non definite o poco definite e vogliamo avere la sensazione che le nostre conoscenze siano “sotto controllo”. Tendiamo a non dare peso a quanto poco sappiamo della realtà che ci circonda, dello spazio attorno a noi, del nostro corpo e della nostra mente (ammesso che siano analizzabili separatamente). Passi tutto, ma la definizione del genere quello no, quella deve essere ben definita.
La distinzione di due sessi biologicamente determinati è culturalmente e socialmente radicata, tuttavia, non trova riscontro nei risultati delle ricerche biologiche e genetiche, nelle quali più che come due categorie separate, femminile e maschile, la distinzione è rappresentata come due dimensioni collocate ai poli di un continuum; l’intersessualità ne è un esempio eclatante (4).
Un contributo interessante in questo senso è stato dato dall’APA, che ha proposto, per ovviare al binarismo, un tipo di linguaggio che spinge all’inclusione meno rigido e rispettoso delle diversità (5).
Anche per quanto concerne il genere, le persone si differenziano collocandosi in punti soggettivi del continuum dell’identità di genere. Ogni persona ha una sua unica e particolare configurazione la cui espressione può anche variare nel breve termine o nell’arco della vita. L’identità di genere è una personale creazione che scaturisce dalla soggettiva integrazione, sul piano psicologico, degli elementi biopsicosocioculturali che comporta un’ampia varietà anche tra persone cisgender (6).
Abbiamo bisogno delle etichette perché ci permettono di orientarci (con economia) nel mondo e sapere subito cosa abbiamo davanti. Viviamo in un mondo complesso e questa è la soluzione che abbiamo trovato per semplificarlo, ma sbagliamo in continuazione e incontriamo numerosi bias che non fanno altro che rendere impossibile la nostra comunicazione.
L’errore si esplicita quando, con le nostre euristiche, costruiamo un’idea rigida di cosa siano donne e uomini e attribuiamo loro caratteristiche stereotipiche, formuliamo attribuzioni di valore e sviluppiamo atteggiamenti personali rispetto ad essi. In questa concatenazione di feedback tra le nostre aspettative e gli stimoli cui siamo sottoposti, scegliamo di distinguere l’altro e agiamo nei suoi confronti in base a pregiudizi e discriminazioni.
Questo passaggio, dall’attribuzione al comportamento, ci porta ad agire diversamente sulla base del percepire l’alterità come prevalentemente femminile o maschile. Questo perché attribuiamo alcuni ruoli alle donne e altri ruoli agli uomini. Nel momento in cui ci relazioniamo con altre persone, pare sia importante sapere se sono uomini o donne perché indirettamente stiamo cercando le istruzioni su come è più opportuno che noi ci comportiamo con l’altra persona, ignorando che stiamo cercando di confermare un nostro pregiudizio rispetto a quella situazione ma non di certo come quella persona attenderebbe di essere considerata, visto che è una “realtà inconoscibile”.
Non è solo una questione di cosa percepiamo ma anche di come noi percepiamo noi stessi in relazione alle altre persone.
Il “genere” è un prodotto culturale e contemporaneamente riguarda un aspetto nucleare dell’identità. Il fatto che tra la moltitudine delle soggettività umane sia socialmente accettata un’unica sua declinazione, lo appesantisce di attese sociali culturalmente radicate che rendono a volte impossibile la convivenza tra esseri umani.
Crediamo che queste costruzioni sociali meritino una ristrutturazione del concetto di genere, o forse quello che andrebbe ristrutturato è il concetto stesso di famiglia (origine della nostra società e radice di molti dei nostri pregiudizi), che vede al suo interno, come idea socioculturalmente più accettata, persone con diverse funzioni sociali che mai si integrano (nel contenuto, e nei ruoli) e che faccia della diversità il suo unico modo di rappresentarsi.
Le diversità sono il pane quotidiano della nostra società e vanno difese in tutti i modi. Quando però i ruoli diventano la sostituzione della complessità della persona e vengono utilizzati come etichette quali: donna=madre=casalinga, uomo=padre=lavoratore, il pregiudizio “peccato originale” diventa uno dei maggiori fattori di rischio della violenza di genere e della violenza domestica. La lotta contro il dualismo (binarismo di genere) va condotto, prima di tutto, nelle famiglie.
Il secondo luogo della lotta è probabilmente quello politico-culturale. Il concetto di “genere” ha avuto un ruolo importante nella politica femminista degli anni ‘70 e, a partire da quel dibattito politico si è spostato prima al suo cappello socio-culturale, poi al cappello antropologico per assestarsi ancora meglio all’interno di un argomento che pare accoglierlo alla perfezione, ossia la Sociologia (e la Psicologia Sociale).
Lo studio della “violenza di genere” è una materia nuova, nonostante faccia parte della storia dell’umanità da secoli.
Il dibattito è fondamentale e in questo senso in questo momento storico, anche grazie ai social, c’è molto confronto sui temi gender. Oggi lo scontro e il conflitto può essere identificato come unica possibilità di crescita culturale. Il passaggio attraverso il momento rivoluzionario è assolutamente da considerarsi un bene.
L’ultimo aspetto che vogliamo analizzare è quello prettamente socio-culturale. Il binarismo di genere è un problema. Non lo è solo perché non tiene conto della poliedricità del genere riducendolo a due possibilità (quella giusta o quella sbagliata), lo è in quanto frutto di un’egemonia culturale. È stato preso come prototipo di unico essere umano valido il modello maschile eteronormativo (maschio bianco, eterosessuale, cisgender, macho, che mangia le bistecche, gioca a calcetto, ecc… a cui, tra l’altro, sono preclusi tutti quegli atti empatici, emotivi, emozionali che dovrebbero di contro essere dominio della donna) e tutte le altre possibili espressioni di genere sono state etichettate come ascrivibili al femminile e non accettabili o come “deviazioni” dal modello valido.
Su questa base, alla nascita viene attribuito alle persone un sesso biologico dal quale derivano, in maniera rigidamente lineare, una serie di attese sociali relativamente alle dimensioni dell’identità, dell’espressione, del ruolo di genere ed orientamento sessuale.
Tutto ciò funziona a livello iperuranio, nel mondo delle idee. Nel mondo tangibile nulla è binario, tutto si colloca in un continuum. A partire dal sesso, di cui la natura ne offre più di due (7).
Le espressioni di genere che fuoriescono dal modello maschile eteronormativo sono altri modi di essere umani a prescindere dal genere nel quale ci si identifica. Lorenzo Gasparrini a tal proposito scrive “ci sono tanti modi diversi di essere uomini – e sono tutti meno violenti del patriarcato” (altro fattore di rischio della violenza di genere, che in questa sede non approfondiremo).
Il modello di espressione dominante è limitante per gli uomini stessi che, auto-confinandosi dentro uno stereotipato modello di mascolinità tossica, sono privati della possibilità di sperimentarsi in altre forme umane quali, ad esempio, la vulnerabilità. La vulnerabilità che accomuna tutti gli esseri umani, tranne il modello “veri uomini” che, al netto dei privilegi, non sembra poi più essere così conveniente. Il prezzo è elevato: adeguarsi a caratteristiche precostituite rinunciando alla scoperta della propria umanità, della propria diversità, della propria individualità.
Pensare il mondo in termini binari probabilmente semplifica ed economicizza la realtà, ma allo stesso tempo crea limiti, confini e violenza tra le persone; limiti identitari, limiti al pensabile, riduce la capacità immaginativa e nega dignità. Avere parole per descrivere le diversità, per ciascuna variazione elettromagnetica, apre la gamma dello spettro visibile dell’arcobaleno.
Socializzati al bianco e al nero, a chi verrebbe in mente di guardare altri colori? Il rischio è che quando si incontra un colore diverso dai primi due ci si spaventi e lo si neghi. Cosa succede se quel colore è il nostro? Cerchiamo di coprirlo, metterlo da parte, cancellarlo, negarlo (negarcelo) senza integrarlo e riconoscerlo come una parte di noi.
Risultato? Impedirci di conoscerci e scoprire come siamo (e come sono le altre persone).
La prima violenza è dunque nei propri confronti.
Possiamo dire che sia colpa delle etichette utilizzate? o piuttosto dell’atteggiamento umano che ci riserviamo tra noi?
Le parole reificano la realtà. Questo accade non tanto per i suoni emessi quanto per i significati che vi attribuiamo. Sono le nostre attribuzioni a determinare i nostri copioni di comportamento.
Accettare o meno il proliferare di etichette per definire i generi in più modi è una questione di posizione. A tal proposito Paolo Valerio, presidente ONIG, ha aperto una interessante riflessione su come il binarismo di genere rappresenti una gabbia. Talvolta le gabbie costituiscono anche difese, per esempio se si è in mare e si osservano gli squali dall’interno di una gabbia, ma prima o poi bisogna uscire dalla gabbia, respirare e navigare.
Lo stesso discorso si potrebbe estendere alle nuove etichette.
Per questi motivi il focus va sulla promozione del benessere psicosociale.
È arrivato il momento di considerarci persone, o “libere soggettività” come insegna Laurella Arietti (8).
E’ arrivato il momento di lottare e combattere per la definizione di quello che siamo come persone, indipendentemente da come ci sentiamo, dal genere che sentiamo maggiormente nostro o dal genere che amiamo, odiamo, con il quale ci confrontiamo o non, che abbiamo allo specchio o fuori dalla finestra.
Il punto non è mai il nostro genere o quello delle altre persone. Il punto è e deve essere che persone siamo e che persone vogliamo essere noi oggi.
Hyde, T. (1700)
Keeney, B. P., & Keeney, B. P. (1985).
De Beauvoir, S. (1997)
Lee et al, 2006
https://www.apa.org/practice/guidelines/transgender.pdf
Graglia, M. (2019)
Fausto-Sterling, 2000
https://www.globalproject.info/it/in_movimento/il-movimento-trans-diventa-movimento-delle-libere-soggettivita-transfemministe/22412
Il racconto-testimonianza di un uomo in percorso al Cam Sardegna
(articolo a cura della giornalista Patrizia Canu, pubblicato su L’unione Sarda in data 19 marzo 2020, pg 44)
Un uomo si misura dalle tracce che lascia. Decisiva è la capacità di guardarsi dentro, di tenere lo sguardo sulla parte sporca; la forza di volersi risollevare diverso. E di non provare mai piu’ ad aver ragione di una donna a suon di botte. Questo è il racconto di un uomo seguito dal Centro Uomini Maltrattanti Sardegna.
Come si è rivolto al Centro? Passaparola? La sua compagna?
Mi sono rivolto al CAM dopo aver visto un servizio in un tg regionale, due anni fa. Da 10 anni avevo una relazione che negli ultimi 5 anni aveva assunto una connotazione che, prima del percorso, avrei definito burrascosa. La convivenza veniva interrotta per settimane, a volte mesi…Poi ci ritrovavamo, ma nonostante le buone intenzioni iniziali qualunque argomento diventava motivo di litigio. E i litigi erano sempre più violenti. A un mio silenzio prolungato poteva seguire una fragorosa manata sul tavolo, potevo rovesciare sedie, tavoli, divani. Scagliavo cellulare o telecomando contro il muro. Fino ad arrivare ad essere direttamente violento sulla mia compagna, in modo crescente. Inizi con una spinta che La mette a sedere sul letto, ed arrivando a metterle una mano alla gola. Mi erano capitate risse con altri uomini, al lavoro o per strada. Ma minimizzavo, era una cosa di cui poter parlare ridendo in uno spogliatoio maschile.
Con la mia compagna era diverso: sarei voluto essere un buon compagno, una persona forte che la difendesse e l’aiutasse nei momenti difficili. Ma non andava così.
Lei ha iniziato a dirmi che il mio comportamento non andava bene, allora attuavo tutta una serie di difese e contromisure per non ammettere ciò che facevo: se mi diceva che urlavo, rispondevo che era più interessata a come dicevo le cose che non a quello che le volevo dire; se piangendo mi chiedeva di non spaccare gli oggetti che l’accusavo di essere una materialista.
Quando si è reso conto di avere bisogno di aiuto?
Una sera sono diventato violento, ho iniziato a sbraitare, a rompere tutto ciò che trovavo. Lei era annichilita, ho visto la sua paura. Poi ha trovato la forza di battermi i pugni chiusi sul petto, senza violenza, mentre piangeva, come una richiesta di aiuto, come se volesse tirare fuori l’uomo di cui si era innamorata perché la difendesse. Ho provato vergogna, l’avrei voluta abbracciare, ma la violenza era troppo vicina e l’orgoglio mi ha bloccato. Si è spezzato qualcosa in me quella sera. Fortunatamente. Ho deciso di chiedere aiuto, troppo tardi per salvare la nostra relazione.
Che reazione ha avuto al primo colloquio?
Al primo colloquio individuale non sapevo cosa aspettarmi, nessuno sapeva che fossi violento con la mia compagna; avrei dovuto ammettere un aspetto di me che chi mi stava vicino ignorava ed era il mio momento di avere paura. Ho usato i meccanismi che avevo appreso nel corso del tempo, minimizzando ciò che avevo fatto, quindi una spinta diventava una spintarella e la responsabilità era comunque della mia compagna: se lei non avesse fatto la stronza io non l’avrei spinta.
Il momento piu’ difficile?
I primi incontri con gli altri uomini del gruppo son stati difficili. Non venivo giudicato ma era chiaro, attraverso il gioco di specchi che si crea, riconoscendo la violenza di altri uomini, che l’immagine di te che vedi è dolorosamente diversa dall’immagine di uomo che di te avevi. Capisci che le tue non sono esplosioni improvvise di rabbia, Ma un metodo rapido ed efficace per aver ragione, per ristabilire una gerarchia, per avere il potere. Potere che in realtà non hai, perché non hai nessun controllo delle tue azioni, non sei felice e la tua compagna sta impazzendo.
La conquista che ritiene piu’ grande?
Ogni gruppo a cui partecipi è una piccola conquista, una cosa in più che impari. A chi si avvicina al Cam direi di fidarsi, di aprirsi, di smettere prima possibile di raccontarsi bugie, perché gli uomini che ha attorno hanno avuto comportamenti violenti come lui e quelle bugie le riconosceranno. Poi di mettersi in gioco, di applicarsi, di sperimentare ciò di cui si parla nel gruppo, perché ci abbiamo messo una vita a diventare violenti e smontare certi meccanismi richiede fatica.
Rapporti con le donne? Sono cambiati?
Cerco di avere un rapporto sincero con le donne che frequento, evito le bugie che un tempo avrei detto per non aver problemi. Non impongo il mio punto di vista, lo metto sul piatto poi vediamo. Cerco di dare un nome alle emozioni che provo quando sono a disagio e cerco di comunicarlo, senza colpevolizzare chi ho di fronte. E questo provo a farlo con chiunque.
Quanto influisce la cultura nell’aggressività?
L’influenza culturale patriarcale è tangibile. La figura di un uomo di successo spesso è rappresentata con stereotipi di uomini che non comunicano il proprio disagio, non mostrano fragilità e devono possibilmente avere l’ultima parola.
Le parole della nostra presidente, Nicoletta Malesa, sull'emergenza COVID-19
"Solidarietà all'appello dei Centri antiviolenza"
#iorestoacasa è il nostro stato attuale per sentirci al sicuro dal contagio. Restiamo a casa perché è considerato il nostro rifugio, il nostro spazio intimo, il luogo della famiglia.
Possiamo sentirci al sicuro dal Covid-19, ma per molte donne, con l'inizio delle restrizioni, è coinciso l'inizio di un incubo. La casa è l'ultimo luogo in cui si sentono al sicuro.
Voglio e vogliamo unirci all'appello dei Centri Antiviolenza, che da giorni denunciano il calo delle chiamate al 1522.
Se non puoi usare il telefono davanti a lui, se hai paura, approfitta di piccoli gesti quotidiani: buttare la spazzatura, andare in farmacia, o chiedere ai tuoi vicini di chiamare per te il 1522.
Non sei sola. Mai.
Vorrei richiamare l'attenzione di ognuno di noi, perché per molte donne può essere difficile anche rivolgersi ai vicini. Un vicino può prestare maggiore attenzione, può allertare le forze dell'ordine, chiamare lui o lei stessa il 1522. Facciamo tutti la nostra parte. #iorestoacasa e #nonrestoindifferente
Quelle scuse mai fatte...
Mi ritrovo a scrivere questa lettera con il preciso dovere e la coscienza di poter riuscire a trasmettere un messaggio importante rivolto a tutti gli uomini, con la speranza di poter condurre delle vite migliori per noi stessi e per tutte le persone che fanno parte della nostra vita.
In questi ultimi anni purtroppo non si parla d’altro che di “Femminicidio” un terribile fenomeno a cui non si vuole (e lo dico con cognizione di causa) trovare un rimedio, non tanto da parte di chi lotta costantemente, con fatica e sopratutto con un Credo Indissolubile per la causa, ma da parte di una classe politica incapace e testarda che si ostina in ogni modo a non investire sulla prevenzione di questo Cancro e a non valutare altri punti di vista e percorsi che (e ne sono estremamente convinto) ridurrebbero in maniera drastica il problema, continuando a perpetuare una lotta contro la violenza di genere che nel corso degli anni non tende a diminuire in maniera sostanziale.
Mi obbligo quindi a dover riportare il significato del termine “Femminicidio” sicuro di suscitare in tutti gli uomini una profonda sensazione di vergogna per questo abominevole atto:
“Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte in accordo quindi con la definizione di violenza di genere”.
Ed è proprio in questo frangente che scatta la mia riflessione, perché un uomo arriva al punto di strappare e portare via la vita alla persona che ama o che crede di amare? Esattamente, cosa accade “prima” di ritrovarci coinvolti in una situazione irreparabile? Personalmente mi sono avvicinato a questa tematica quando circa tre anni fa ho conosciuto un servizio rivolto agli uomini che agiscono violenza sulle donne attraverso una semplice brochure che elencava alcuni aspetti e comportamenti che i partner possono esercitare nei confronti delle proprie compagne e leggendo attentamente mi sono rispecchiato in uno di questi. Curioso, ma anche con un comportamento da beffeggiatore ho chiesto informazioni più dettagliate proprio a coloro che risultano essere le fautrici di tale iniziativa.
Perché “beffeggiatore” vi starete domandando! proprio per lo stesso motivo per cui la maggior parte di noi uomini tende a sminuire alcuni comportamenti dovuti a stereotipi d’impronta maschile, ma anche per mancanza di sensibilità, che inducono a ferire l’animo delle nostre partner, ma non solo di esse, non sono da meno madri, sorelle ed amiche e questo accade perché non ci rendiamo conto che anche un tono di voce “sopra le righe”, una porta che viene sbattuta a seguito di una discussione, voltare le spalle con arroganza convinti di non dover dare spiegazione alcuna, ledere l’intelligenza e la cultura di chi ci sta accanto e tante altre situazioni, fanno parte di quel vortice che viene definito VIOLENZA.
Questa è la risposta dei miei perché, non riconosciamo la Violenza in queste forme e l’abbracciamo incondizionatamente ogni giorno della nostra vita, inconsapevoli ed ignari che proprio questi comportamenti possono guidarci in situazioni più difficili che non riusciamo più a controllare, fino ad arrivare alla punta dell’iceberg, il Femminicidio.
In una relazione sentimentale precedente, spesso nelle discussioni il tono della mia voce tendeva a ricoprire quello della mia fidanzata, al punto tale che un giorno mi disse di aver paura di me in quei frangenti. Mi ricordo che la guardai allibito e gli feci notare che la sua paura era priva di ogni fondamento, che la sua reazione era esagerata, che conoscendomi e soprattutto che con l’amore che provavo nei suoi confronti, Mai e dico Mai avrei fatto lei del male. Eppure non è così come pensavo, solo dopo anni e dopo aver capito alcune dinamiche mi sono reso conto del comportamento che manifestavo nei suoi confronti, solo ora mi sono reso conto che la sua era una paura giustificata. Solo ora me ne vergogno profondamente e non ho mai potuto chiederle scusa.
“I mostri non esistono” di Susanna Valleri (Psicologa)
Quando ero piccola avevo paura di qualunque cosa: avevo paura del buio, avevo paura che qualcuno potesse uscire da sotto il letto e mangiarmi, avevo paura dei mostri. Crescendo ho capito che i mostri non esistono, perlomeno non esistono nel senso stretto del termine.
Esistono persone che fanno cose mostruose, esistono persone che agiscono in maniera violenta, esistono persone che conoscono solo il linguaggio del più forte, ma queste sono persone e non sono mostri.
I mostri stanno nelle favole ma le favole sono solo fantasiose storie per far capire ai bambini che esiste la malvagità, la cattiveria.
Oggi ho letto un articolo su un giornale in cui si parla di autori di violenza e si argomenta su di loro attraverso dei termini che sono molto lontani dalla realtà.
Questi mostri, aguzzini sono uomini che utilizzano la violenza per esprimersi, per farsi rispettare, per riconquistare un potere che stanno perdendo. Mi piacerebbe fossero mostri, sarebbe molto più semplice per tutti noi riconoscerli tali.
Invece sono figli, sono padri, sono mariti, sono fratelli, sono fidanzati, sono persone. Definirli mostri allontana l’idea di poterli aiutare a cambiare, allontana l’idea che si possa cambiare.
Se davvero vogliamo cambiare la mentalità dobbiamo imparare ad usare i termini giusti, dobbiamo imparare a nominare le cose con loro nome.
Tutto questo discorso non significa che sia facile capire quello che passa nella testa di questi uomini, di sicuro non significa trovare una giustificazione a quello che fanno che è e deve essere condannabile. Ma non significa neanche identificarli con ciò che non sono. Spesso sento definirli malati, patologici; niente di più errato. Se fosse una malattia ci sarebbe una cura e penso che ad oggi forse l’avremmo attuata. La violenza è una modalità comunicativa, è un copione imparato e tramandato.
Uno dei lavori che facciamo al CAM con gli autori è quello di “nominare la violenza”, ossia dargli il giusto sostantivo. Questo serve per riconoscere il fatto e per assumersene la responsabilità.
Perché questo esercizio non può essere esteso ad ognuno di noi?
Perché continuiamo a chiamare mostri, uomini che tali non sono?
Loro stessi non si riconoscono mostri, e continuare a definirli così li allontana solo dalla possibilità di assumersi la responsabilità di azioni ignobili. La violenza è una brutta faccenda, è scomoda, è odiosa, è inqualificabile, è incomprensibile ma esiste e dobbiamo farci i conti, ormai tutti i giorni.
Le donne continuano a morire e a essere picchiate, ad essere violentate, ad essere sfruttate, e questo avviene perché nessuno di noi si prende la responsabilità di capire che la maniera giusta per affrontare questa tragedia è quella di combattere insieme da più fronti: i CAV che aiutano le donne a trovare un luogo sicuro, i CAM che aiutano gli uomini a cambiare e la società tutta che permette il cambiamento senza etichettare e senza usare termini che servono solo a fare notizia, a fare titoli di giornali.
Nella realtà dei fatti non tutte le donne vittima di violenza si rivolgono ai CAV e il sommerso rischia di essere più numeroso del dichiarato. Inoltre, non tutte le donne denunciano e ciò non aiuta nell’individuazione della violenza. Non tutte le mamme sono capaci di intercettare la violenza nel proprio figlio, anche se oggi avviene più di prima.
Ma lavorare col singolo non basta. Non basta trovare donne che accompagnino il proprio marito, compagno, figlio nel percorso di cambiamento che i CAM propongono. Il lavoro deve essere capillare. L’informazione deve essere corretta. Le parole hanno un significato e rischiano di etichettare e non di indirizzare.
Dobbiamo smetterla di piangere le vittime e dobbiamo iniziare ad usare la prevenzione come arma a favore delle donne. Adesso esistono strumenti e professionisti che possono aiutare gli autori di violenza a cambiare ora bisogna capire se la società vuole permettere questo cambiamento
“Un mondo che ci appartiene”. (Di Alessandro Cadelano)
La violenza sulle donne è un argomento che ci appartiene, vive nella nostra quotidianità e se non lo fa direttamente dobbiamo pur sempre avere la consapevolezza che siamo ogni giorno a stretto contatto con quello che agli occhi di tutti viene definita la causa: “L’Orco, Il maltrattante”.
La nostra serena quotidianità ci fa credere che sia qualcosa di mitologico, imponente, crudele, una persona con cui mai potremo avere a che fare.
Le favole ci insegnano che laddove c’è una principessa, c’è sempre chi la minaccia, chi attenta alla sua vita.
Tutti noi cresciamo ascoltando le favole, vivendole. Per molti sono semplici racconti, per altri diventano con il tempo crudele realtà dove senza volerlo diventano le protagoniste, senza nessun principe azzurro.
È in questi racconti che crediamo di capire cosa il sia il bene e cosa sia il male, di chi dovremo fidarci e chi evitare, crescendo con la certezza di non andare mai incontro a qualcosa di negativo.
Molte volte non essere coinvolti direttamente in qualcosa, crea su di noi quel velo di indifferenza, di … “ah ecco, mi spiace, non potevo immaginare”, ma non pensiamo che in questo nostro pensiero ci siano donne che lottano quotidianamente.
Pensiamo che Violenza sia alzare le mani, picchiare, procurare del male fisico, ma non pensiamo mai che anche il sollevare la voce, spingere, strattonare il braccio, prevaricare, siano forme di violenza.
Possiamo arrivare a pensare che uno schiaffo sia semplice nervosismo, a volte la stessa donna minimizza “è successo solo una volta!”, e forse è questo stesso nostro pensiero che contribuisce a trasformare quel gesto in una triste fiaccolata, dove altri uomini sono presenti, senza che si accorgano realmente delle loro azioni.
Il mio percorso di autore mi ha fatto capire che in tante necessitano di assistenza e per ogni donna che chiede aiuto, c’è un uomo che necessita di altro aiuto.
Ho avuto la possibilità di avvicinarmi al Centro Ascolto Uomini Maltrattanti (CAM), dove combattere la violenza alla radice – aiutando l’uomo a gestire la sua rabbia – è un passo deciso e necessario nella lotto contro la Violenza sulle Donne.
Il CAM è una realtà, esiste e lotta, ogni giorno, silenziosamente.
Tutti hanno diritto di vivere la propria favola, esserne le protagoniste alla ricerca del “Vissero per sempre felice e contenti!”.
Perché alla fine, è pur sempre … un mondo che ci appartiene.
Il Tempo, la Violenza e la Storia (di Vincenzo Giara)
Anche quest’anno, nella giornata della memoria, ci ritroviamo a riflettere sulla condizione umana. Un tuffo nel buio senza possibilità di luce, nel vuoto che non si può riempire, nel buco nero dell’umana storia che per questo orrore non troverà mai ragione. Quell’impossibilità di purificare la colpa sta descritta nelle parole pronunciate da Karl Jaspers, padre della psicopatologia e grandissimo filosofo che, alla fine della guerra, quando gli fu chiesto di guidare la Germania del dopo guerra rifiutò con un celebre discorso in cui diede voce per la prima volta al concetto di “Colpa Metafisica” da lui teorizzato riflettendo sulla coscienza dei tedeschi: “Ci sarà la colpa morale legata al diniego, cioè la negazione di ciò che non si accetta che esiste anche se si sa che esiste. Ci sarà la colpa giuridica, ma di questo si occuperanno i tribunali di guerra. Ma nelle nostre coscienze abbiamo sopratutto una colpa metafisica, che consiste nel fatto che noi tedeschi siamo ancora vivi. Come possiamo noi tollerare e giustificare la nostra esistenza dopo aver tollerato un eccidio mai visto nell’umana storia perpetrato a quei livelli e con quelle modalità?”.
Parole da rileggere oggi, la domanda rimane aperta in tempi in cui una parte di umanità ancora si arroga il diritto di vivere con innocenza e senza senso di colpa il privilegio di essere nata nella più ricca parte del mondo. Accade che invece l’umanità è una sola e questa indifferenza insterilisce persino la nostra anima che, così facendo, diventa insensibile all’accadere del mondo.
Analogamente, in diversa scala storica e temporale, è in atto in molteplici forme una violenza continua di un genere sull’altro che vede il genere da sempre predominante giustificare in ogni modo il proprio dominio, spesso senza nemmeno averne coscienza, dal mantenimento del quale ogni giorno, impoverendosi moralmente, incassa un dividendo.
Al CAM ci occupiamo proprio del genere predominante.
Oltre ad accogliere, ascoltare ed accompagnare nel percorso di cambiamento l’uomo autore di atti di violenza, che è il nostro lavoro principale, mettiamo al centro della riflessione proprio l’agire nella società del genere predominante sia nella sua totalità che nella specifica biografia di ogni uomo che si rivolge a noi.
Al CAM accogliamo e ascoltiamo uomini. Tutti gli uomini, nella convinzione che un percorso di ripristino di salute interiore e di giustizia e uguaglianza tra i generi deve coinvolgere tutti gli uomini. Nessuno si senta escluso. Perché se la colpa non può essere imputabile singolarmente in quanto non può essere colpa di ognuno di noi essere nati uomini, dobbiamo smettere di vivere con innocenza questo privilegio che ci abbassa moralmente e che dunque, collettivamente, ci coinvolge tutti.
Parola di uomo.
Perché ho scelto questo lavoro….(di Susanna Valleri psicologa)
Ieri come tutti i pomeriggi sono andata a trovare mia madre che, come da sua abitudine, stava guardando la televisione. Guardava uno di quei programmi che di culturale non hanno neanche la sigla e che, se possibile, aiutano a creare preconcetti e stereotipi.
Comunque, si parlava del caso di quei due ragazzi che hanno ucciso i genitori di uno di loro.
Al che mia madre mi fa una domanda ….”ma come si fa ad uccidere la propria madre e poi pentirsene come se si potesse tornare indietro?….”
Ancora mi chiede…. “come quel ragazzo che ha tirato l’acido sul viso della fidanzata. Poi arrivate voi psicologi e cosa fate? Loro si pentono e voi li ascoltate? O che cosa andate a fare in carcere?….”
Mia madre ormai ha 76 anni, non è più giovane e certe cose non le può capire . Anche se, pensandoci bene, certe cose sono difficili da spiegare.
È difficile spiegare perché un uomo o un ragazzo commettano certe atrocità, e poi forse una spiegazione non esiste.
Lavoro con gli uomini che agiscono violenza nelle relazioni intime e, spesso, mi trovo a dover spiegare il mio lavoro; il perché l’ho scelto; il perché credo che abbia senso aiutare questi uomini.
In quanto io credo che il cambiamento sia veramente realizzabile, ma mi trovo sempre più spesso a confrontarmi con altri, chiunque: giovani e vecchi, uomini e donne, che non riescono a capire che un cambiamento è possibile e che pensano che l’unica cosa da fare sia rispondere alla violenza con la stessa moneta.
Il lavoro che ho scelto di fare non è di semplice attuazione né tantomeno facile da spiegare, ma se entriamo nell’ottica che la violenza può essere concepita come una modalità comunicativa, allora sembra più facile pensare che abbiamo potere sulla possibilità di cambiare le cose.
Ritengo che potere sia la parola chiave che permette a questi uomini di scegliere quale atteggiamento mettere in essere. Se ho potere sulle mie emozioni ho la possibilità di modularle. La rabbia esiste in ognuno di noi, ma bisogna imparare a gestirla. Se io sono padrone della mie emozione sono capace di capirmi e di confrontarmi con l’altro, chiunque esso sia.
Dopo che per anni ho lavorato con le donne vittime di violenza ho pensato di occuparmi dell’altra metà del cielo e oggi, come operatore CAM, sono felice di questa scelta. Lavorare con questi uomini è complicato, anche perché nella maggior parte dei casi la motivazione che li spinge a venire da noi è riconquistare un amore perduto.
Non è il cambiamento di per sé, per lo meno non lo è sempre. Pochi uomini si rendono conto, inizialmente, che devono cambiare per loro stessi, per acquisire un po’ di rispetto nei propri confronti e perché questo atteggiamento li sta distruggendo dentro.
Fortunatamente il lavoro con il CAM li aiuta a costruire questa nuova identità. All’interno del gruppo sono loro stessi che fungono da specchio per l’altro; è la propria esperienza che fa scattare quella molla per capire che stiamo parlando di violenza, fosse anche psicologica; è più facile riconoscere l’errore dell’altro che il proprio; è più facile capire che se l’altro cambia posso cambiare anche io.
Ascoltare le loro storie è emotivamente devastante. Sono pochi gli uomini maltrattanti che hanno avuto esempi di uomini, padri, positivi. Sono stati vittime loro per primi di violenze e “metodi educativi” rigidi. Hanno avuto madri che non li hanno saputi proteggere, come potevano? Se non hanno saputo proteggere neanche loro stesse.
Come donna prima e come psicologa poi mi rendo conto che spesso le scelte fatte sembrano quasi obbligatorie, come se non ci fosse altra possibilità.
Questo mi aiuta a non odiare questi uomini, a non definirli mostri, a cercare una nuova strada da percorrere insieme. A mettermi davanti a loro senza giudizio né condanna. Certo condanno la violenza, in ogni sua forma, ma la condanno combattendola.
Sono certa che sia possibile un alternativa e che sia possibile gestire la rabbia senza agirla su chi diciamo di amare.
Alcune volte cercare di convincere gli altri di queste mie credenze diventa impossibile. A chi mi chiede perché faccio questo lavoro potrei rispondere che voglio che la mia esistenza abbia un significato, abbia valore. Vorrei lasciare un piccolo segno del mio passaggio. E se aiutare un solo uomo significasse aiutare più donne ne sarà valsa la pena. E poi continuo a pensare che cambiare è possibile, altrimenti non ha senso combattere ogni giorno per i nostri ideali.
Non avrebbe senso avere degli ideali.
Amare è una cosa seria e si deve fare nella maniera giusta. Amare non vuol dire possedere qualcuno, non vuol dire limitare la libertà dell’altro, non vuol dire urlare o usare la violenza per sottomettere l’altro. Amare vuol dire rispettarsi e rispettare la diversità, perché è proprio questa che ci arricchisce. Io posso imparare solo qualcosa che non conosco e che qualcun’altro mi può insegnare, altrimenti sarebbe come guardarsi allo specchio e vedere sempre la stessa immagine riflessa.
Non ho scelto questo lavoro per caso, ne sono convinta. Sono certa che il cambiamento sia una scelta che ognuno di noi ha il diritto e il dovere di fare.